Essere imprenditori del vino oggi. In preparazione della nostra seconda edizione di Wine Campus Impresa alcune riflessioni sui limiti attuali dell’imprenditoria vitivinicola italiana che a nostro parere sono da ascrivere più a limiti “culturali” che “dimensionali”
Siamo a circa metà strada della nostra prima edizione di Wine Campus Impresa, un percorso formativo di 8 tappe dedicato agli imprenditori del vino italiani. Un’esperienza molto utile anche per approfondire ulteriormente i limiti e i fabbisogni attuali degli imprenditori vitivinicoli del nostro Paese.
Pertanto, mentre stiamo proseguendo con le lezioni (una giornata al mese) ci stiamo preparando già alla seconda edizione del nostro progetto formativo totalmente dedicato agli imprenditori che vogliono migliorare la loro capacità di gestione dell’azienda, la loro competenza sui mercati italiano ed esteri, la loro facoltà a scegliere e guidare in maniera adeguata le risorse umane, la loro efficienza comunicativa.
Il nostro costante contatto con molte imprese del vino italiane, inoltre, ci porta a condividere con i nostri lettori alcune riflessioni sullo stato attuale dell’imprenditoria del vino italiana.
Quasi sempre si ascrivono i principali limiti del nostro sistema vitivinicolo alla cronica frammentazione del tessuto produttivo.
A tal proposito ricordiamo, secondo gli ultimi dati messi a disposizione di Agea ed elaborati da Ismea che in Italia oggi vi sono circa 45.000 aziende vinificatrici che presentano la dichiarazione di produzione. Le aziende della classe tra 0 e 100 ettolitri, però, rappresentano il 75% delle aziende totali. Per questa ragione sono poco più i 10.000 le aziende vinificatrici italiane “economicamente” interessanti.
Dal nostro osservatorio, però, sarebbe sbagliato (nel passato è un errore che fu commesso da molti analisti e grandi imprenditori del nostro settore) vedere nella perdurante frammentazione del nostro settore produttivo il limite principale allo sviluppo imprenditoriale di questo comparto.
Sicuramente, infatti, la piccola dimensione rappresenta un “vincolo” non indifferente nel progresso imprenditoriale della propria azienda (in particolare in relazione alle risorse umane competenti e capaci di affrontare con professionalità le diverse aree dell’azienda), ma vi sono moltissime dimostrazioni concrete che testimoniano come questo “limite” venga quotidianamente superato da moltissime pmi ma anche micro imprese del vino italiane.
Come pure, d’altro canto, anche nella nostra attività di consulenti aziendali e di formatori ci imbattiamo quotidianamente anche in imprese di dimensioni ragguardevoli (sia private che cooperative) che evidenziano gravi problematiche sul fronte delle capacità imprenditoriali.
Per questa ragione noi continuiamo a ritenere che il principale problema allo sviluppo dell’imprenditorialità vitivinicola italiana sia da ascrivere a limiti “culturali” più che “dimensionali”.
Per questa ragione il tema della formazione di una “nuova” classe dirigente per il vino italiano è prioritario e troppo spesso, purtroppo, tuttoggi sottovalutato.
Perdura, infatti, l’idea che l’intuito, quello che una volta veniva definito il “fiuto per gli affari” possa ancora essere un requisito sufficiente per un imprenditore del vino.
Spesso il trovarsi in un mercato dove le relazioni talvolta sono più importanti di altri fattori, genera l’illusione che basta avere buone capacità relazionali per essere competitivi.
Senza dimenticare che essendo un comparto che si muove a “fari spenti”, cioè non esiste un osservatorio economico (a parte Mediobanca che però si limita alle prime 155 aziende italiane con un fatturato superiore ai 25 milioni di euro) capace di illustrare con trasparenza il reale andamento economico delle imprese del vino italiano, risulta spesso facile dare un’immagine splendente del settore occultando molto aree problematiche.
A questo proposito prendiamo a prestito le parole di uno dei manager del vino di maggior esperienza in Italia, Emilio Pedron, amministratore delegato di Bertani Domains, che nel numero dell’11 giugno 2018 del Corriere Vinicolo dichiarava:”…a mio parere attualmente metà della parte produttiva del vino italiana lavora in perdita”.
Una dichiarazione forte ma anche a nostro parere non lontana dalla verità. Perché è indubbio che sono solo una minoranza le imprese del vino italiane che hanno un sistema di gestione professionale e capace di monitorare le proprie performance, analizzare i propri costi, e quindi valutare i propri margini con reale competenza.
Dal nostro osservatorio, infatti, seppur parziale, rappresentato comunque da oltre un migliaio di aziende del vino di diverse dimensioni, emerge uno spaccato dell’Italia del vino molto eterogeneo, dove, ad esempio, solo una minoranza, inferiore al 30% dichiara di avere un sistema di gestione aziendale e, anche tra coloro che dichiarano di esserne dotati, alcuni con onestà dicono di utilizzarlo solo parzialmente.
Il controllo di gestione può essere considerato una cartina al tornasole, ma non la sola, dell’attuale profilo imprenditoriale del vino italiano.
“Difficile redarre un bilancio oggettivo in un’azienda famigliare”, ci raccontava recentemente un produttore veneto di un’azienda con una produzione di poco inferiore al milione di bottiglie.
Mentre un altro imprenditore toscano ci raccontava che solo negli ultimi due anni, “dopo finalmente avere avviato un controllo di gestione vero ci siamo resi conto che stavamo lavorando in perdita”.
Sono solo due esempi che testimoniano che spesso la bassa competenza imprenditoriale è una sorta di killer silenzioso, come la pressione alta.
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Fabio Piccoli


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