LA RELAZIONE DI FRANCESCO NUVOLI*
Globalizzazione e agricoltura: alcune riflessioni

La globalizzazione può essere intesa come un fenomeno ampio e complesso che si manifesta con implicazioni di natura economica, politica, culturale, ambientale e, come tale, incide sulla condizione sociale della popolazione del pianeta. Sebbene il fenomeno in questione faccia riferimento agli eventi ascrivibili agli ultimi decenni, tuttora il concetto non gode di un supporto scientifico consolidato. Anzi, in proposito, lo studioso indiano Armartya Sen sostiene che processi di globalizzazione sono in corso da almeno un millennio diluendo così, attraverso il fattore tempo, una possibile definizione delle stesso fenomeno. In ambito economico la globalizzazione ha il significato di una crescita considerevole delle relazioni commerciali e quindi dell’interscambio di beni e servizi tra i diversi Paesi con una continua e progressiva affermazione a livello sempre più ampio del sistema liberistico di mercato. Con particolare riguardo al settore agricolo ed agroalimentare, l’allargamento di questo regime di mercato comporta vantaggi economici per i paesi più sviluppati, mentre i paesi più poveri, anche in relazione alla rigidità della loro offerta di beni, ne risentono negativamente.
Ciò, come si comprende, porta ad accentuare le disuguaglianze in termini economico-sociali e non solo, tra i paesi ricchi più sviluppati e quelli poveri. Concorre alla conservazione di questa condizione di dualismo, l’inefficacia dell’azione delle Istituzioni internazionali in tema di aiuto ai paesi poveri, unita anche al mancato rispetto degli impegni definiti nelle decisioni via via assunte in proposito dai paesi aderenti a questi stessi organismi. Al riguardo si può ancora sostenere che la situazione nel corso di questi ultimi decenni non è certamente migliorata. Oggi, poco più di un miliardo di persone sopravvive in condizioni di povertà assoluta con meno di un dollaro al giorno. La gran parte di queste popolazioni vive nelle aree rurali soprattutto nei paesi dell’Asia meridionale e dell’Africa sub-sahariana la cui unica fonte di reddito proviene dallo sfruttamento del fattore produttivo terra. Il settore dominante nel contesto economico generale di questi paesi è pertanto rappresentato dall’agricoltura. In diversi paesi, inoltre, la condizione di miseria è talmente avvertita che non solo non si riesce a conservare lo status quo esistente, pur precario, ma addirittura si registrano riduzioni delle superfici da destinare alle coltivazioni. Ciò innesta, come è comprensibile, una spirale regressiva i cui effetti trascendono il solo aspetto economico, pur grave, per coinvolgere anche quello sociale. Infatti, lo stato di malessere economico comporta un minore accesso ai beni pubblici di interesse generale, quale la salute, l’ambiente e la stessa coesione tra le persone e tra le persone e le Istituzioni. In proposito, è noto come lo stato di povertà si accompagni spesso a situazioni di conflitto tra le popolazioni. Ciò induce a ritenere che l’eventuale azione del decisore pubblico non può essere finalizzata ad incidere sul solo aspetto produttivo, ma deve comprendere anche aspetti culturali, ambientali e sociali. Su queste basi possono così indirizzarsi gli interventi da parte degli Organismi internazionali nell’intento di dar vita a processi virtuosi di crescita, considerata la già evidenziata incapacità di molti di questi paesi a promuovere uno sviluppo di carattere endogeno.
In proposito ci sono esempi significativi che si possono citare. E’ il caso del Malawi, il paese africano che con gli aiuti internazionali di cui ha usufruito ha potuto realizzare la trasformazione economico-sociale del suo tessuto produttivo, con il passaggio da una situazione di carestia a quella di esportatore di beni alimentari.
Ma quali rapporti sussistono tra la globalizzazione e l’agricoltura? Se ne sottolineano alcuni. Si è fatto cenno, in precedenza, alle diseguaglianze di natura economico-sociale con una distinzione ancora più netta tra paesi ricchi e paesi poveri. A questa sperequata distribuzione della ricchezza si deve proprio attribuire la sussistenza della condizione della fame nel mondo. La denutrizione o la sostenuta insufficiente alimentazione è da ricercare nella difficoltà di accesso al cibo, soprattutto per ragioni di natura economica, più che nella disponibilità di beni alimentari tuttora ritenuti quantitativamente in grado di soddisfare le esigenze della popolazione mondiale. E’ indubbio che nei paesi poveri l’agricoltura registri una situazione di arretratezza tecnologica che si manifesta con l’adozione di tecniche ormai obsolete e con conseguenti effetti sulle rese produttive. D’altra parte, anche il capitale umano risente del livello di istruzione certamente non elevato e del grado di professionalità contenuto. Per cui la proposizione di interventi a favore del settore non può non tener conto dell’insieme degli elementi citanti che interagiscono tra di loro.
Ma, sebbene la valutazione sulla dotazione alimentare nel mondo sia considerata valida, non tutti hanno la stessa visione del problema della fame nel mondo. Ci sono infatti delle società, enti, ecc., che sostengono la necessità, anche allo stato attuale, di incrementare, e di molto, le attuali produzioni agricole alimentari. I fautori di queste proposte, in considerazione anche della contenuta possibilità di espandere la superficie coltivata, ritengono che la soluzione del problema vada riposta nell’impiego delle colture geneticamente modificate (OGM) altamente più produttive rispetto a quelle normali. Si tratta di colture come il mais e la soia, ad uso alimentare e anche industriale, attualmente già praticate in diversi paesi come gli Stati Uniti e l’India, il cui uso però non è condiviso da tutti anzi è visto con scetticismo da molti paesi dato che non sono noti gli effetti che il loro consumo può comportare sull’organismo umano e non solo. In tema di impiego degli OGM, la riflessione attiene anche al fatto che la semente è detenuta e distribuita da società multinazionali che fissano i prezzi operando praticamente in regime oligopolistico. L’attività agricola si esplica così in uno stato di dipendenza dalle multinazionali degli agricoltori sui quali grava peraltro il rischio del risultato produttivo anche se non esercitano in toto le funzioni peculiari dell’imprenditore agricolo. La studiosa indiana Vandana Shiva sostiene che le società multinazionali trasferiscono i profitti ottenuti dall’attività agricola verso l’industria delle sementi e dei pesticidi, determinando così un impoverimento del settore con una contrazione dei redditi di lavoro e di capitale. Sostiene inoltre che proprio nel suo paese, l’inserimento nel contesto produttivo agricolo di società multinazionali, ha causato un profondo disagio tra gli operatori agricoli a seguito dell’aumento dei costi di produzione associato a una riduzione dei prezzi all’azienda degli stessi prodotti.
L’attività delle società multinazionali si è anche estesa al mercato delle commoditys (frumento, riso, mais) la cui domanda, a seguito della modifica della ragione di scambio, si è indirizzata per lo più verso l’uso energetico. Ciò ha comportato una riduzione della disponibilità per uso alimentare con conseguente lievitazione dei prezzi delle materie prime agricole creando ulteriori problemi ai consumatori dei paesi poveri. Questo stato di ulteriore incertezza e difficoltà per l’approvvigionamento e la fruizione dei beni alimentari di base, ha fatto sì che da parte degli organismi decisionali e della stessa opinione pubblica ci fosse una riconsiderazione del ruolo da assegnare all’agricoltura da cui è scaturita l’opportunità di una rivalutazione dello stesso settore produttivo.
Rivalutare l’agricoltura significa affrontare le problematiche che la riguardano in un’ottica di sistema e cioè non considerare la sola finalizzazione produttiva ma anche gli aspetti culturali, sociali, ambientali nei quali l’esercizio di questa attività economica insiste, per poter intervenire con misure appropriate e non soltanto a carattere parziale. In particolare, con riferimento alle problematiche agricole si ritiene di considerare quelle connesse all’avvento della globalizzazione distinte da quelle intrinseche, proprie del tessuto economico-sociale del territorio interessato. Riguardo alle prime risulta degno di nota un riferimento al ruolo assunto dalle imprese multinazionali e alle implicazioni che l’esercizio della loro attività determinano nei paesi dove operano. Queste imprese, sorte prevalentemente negli USA, nei paesi dell’UE e in Giappone, hanno sostanzialmente dato luogo a consistenti trasformazioni in campo agricolo su delega dei paesi ospitanti che hanno affidato loro, in diversi casi, il compito di aiutare a risolvere almeno in parte il problema della sicurezza alimentare. In realtà, a ben vedere, i risultati finora conseguiti evidenziano un livello dei redditi ottenuti dagli agricoltori piuttosto contenuto. Inoltre, la pratica attuata della ripetizione della stessa coltivazione, riduce la biodiversità arrivando addirittura alla specializzazione monocolturale con comprensibili effetti negativi, non soltanto sulla disponibilità complessiva di risorse alimentari, ma anche sulla stessa produttività del suolo.
Le Istituzioni internazionali deputate a promuovere interventi in tema di sicurezza alimentare, hanno mostrato, invece, una minore efficacia operativa, talvolta, anche per il mancato rispetto degli accordi raggiunti in quelle sedi da parte dei paesi partecipanti, come prima sottolineato. Il problema della sicurezza alimentare non è certamente di facile soluzione. Ne è dimostrazione anche il recente incontro alla FAO (giugno 2008) il cui risultato è stato, come è noto, piuttosto deludente. E’ comunque in questa direzione che si ritiene debbano concentrarsi gli sforzi con la proposizione e attuazione di progetti e di interventi di cooperazione internazionale. Il problema, nella sua opzione risolutiva, va affrontato con l’obiettivo di rendere concreto il raggiungimento dell’accesso al cibo, tuttora reso difficile o ostacolato da ragioni di natura economica ed organizzativa.
L’accesso al cibo va inteso non soltanto dal lato quantitativo, ma anche qualitativo. La qualità del cibo non deve essere considerata un lusso, ma una prerogativa che appartiene alla generalità delle persone. L’orientamento verso la produzione di beni caratterizzati da queste peculiarità può comportare, dove è possibile, una rivalutazione delle specie vegetali locali. Tale rivalutazione, se adeguatamente supportata da programmi di ordine produttivo e commerciale, oltre ad arricchire di biodiversità l’offerta del settore primario, può favorire una ripresa dell’attività produttiva agricola, in un’ottica di sostenibilità, nelle regioni arretrate e povere.
La povertà e la fame, sostiene Armartya Sen, si combattono non producendo più alimenti ma attraverso il sostegno al diritto dell’alimentazione dei più deboli. E’ compito delle Istituzioni e non solo, far maturare questa consapevolezza soprattutto da parte di coloro che vivono una precaria condizione umana e sociale. Ciò al fine di poter affermare anche la globalizzazione dei diritti. Proprio con questo intento sono sorte diverse organizzazioni tra le quali se ne vuole citare una: Via Campesina, a cui aderiscono movimenti di agricoltori di 87 paesi. L’attività di tale organizzazione si concentra in quattro linee d’azione: sovranità alimentare, biodiversità, cultura rurale, riforma agraria. Tra le linee d’azione programmate, oltre alla sovranità alimentare citata per prima, merita senz’altro una considerazione particolare la quarta e cioè la Riforma agraria. Ciò in quanto è nota la irrazionale e sperequata distribuzione della proprietà fondiaria esistente soprattutto nei paesi poveri e non solo. Si registra sempre più forte la pressione sulle autorità governative perché possano promuovere interventi per l’assegnazione di terre ai coltivatori che non dispongono di questo essenziale fattore di produzione. Al riguardo possono far riflettere le situazioni dello Zimbawe e del Brasile dove si verificano, rispettivamente, casi di occupazioni di terre e manifestazioni per contrastare la gestione improduttiva della terra, dominata dal latifondo.
Concludo questa esposizione con una considerazione di Giovanni Bazoli. Finora la globalizzazione, egli dice, ha comportato una esasperazione della logica del profitto il cui risultato è la distinzione delle persone in due categorie: quelle che ne fruiscono e quelle che ne sono escluse. Mi chiedo: è possibile, se non eliminare, almeno ridurre questa distinzione a beneficio delle persone fruitrici? Io posso formulare, a questo punto, un solo, favorevole auspicio.

*prof. Francesco Nuvoli dell’Università di Agraria di Sassari.


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